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La malattia di Alzheimer: possibile origine e manifestazioni

La malattia di Alzheimer (AD, Alzheimer’s Disease) (dal medico tedesco Alois Alzheimer che, agli inizi del secolo scorso, fu il primo a descriverne i sintomi) è una forma di demenza neurodegenerativa che si manifesta con il deterioramento progressivo delle capacità cognitive di chi ne soffre. 
Tratti distintivi delle fasi iniziali della malattia sono la perdita della memoria a breve termine, la disfunzione del linguaggio (i.e. la dimenticanza di termini specifici, il commettere errori sia nel pronunciare che nello scrivere parole, ecc.), l’incapacità di riconoscere oggetti di uso quotidiano o persone note, la difficoltà nello svolgere mansioni che racchiudono un certo grado di progettualità.

Stando a dati raccolti nel 2016, in Italia ci sarebbero oltre 1.200.000 persone affette dalla malattia di Alzheimer, un numero che è destinato ad aumentare nel tempo dato il continuo prolungarsi della vita media. La prevalenza di AD, infatti, si è vista crescere con l’avanzare dell’età, passando da circa il 3% negli individui di età compresa tra i 65 e i 74 anni, a oltre il 30% nelle persone con più di 85 anni. Nonostante si sia stabilito che la diminuzione della funzione cognitiva si associ alla riduzione del volume del cervello causata da eventi, consistenti e continuativi, di morte neuronale (da cui la classificazione “malattia neurodegenerativa”), i dettagli molecolari del processo patologico che scatena una simile degenerazione della massa encefalica non sono del tutto chiari.

Ciò che si sa è che la malattia di Alzheimer si manifesta in maniera conclamata sotto forma di due specifiche tipologie di alterazioni patologiche a discapito della salute delle cellule neuronali: il deposito di “placche β-amiloidi”; la formazione di “grovigli neurofibrillari”. Le placche β-amiloidi si costituiscono di accumuli di versioni difettose della proteina precursore della β-amiloide che determinano una vera e propria ostruzione fisica, andando a danneggiare le connessioni tra i neuroni. I grovigli neurofibrillari, invece, scaturiscono da alterazioni nella conformazione di particolari filamenti proteici chiamati “microtubuli”, che funzionano come se fossero delle “autostrade” intracellulari su cui svariate molecole transitano per raggiungere diversi organelli o determinati distretti della membrana citoplasmatica. In entrambi i casi, le funzioni compromesse riguardano il mantenimento della stabilità del network neuronale e, alla fine, la mancanza di connettività tra le cellule porta alla morte dei neuroni.

L’origine della malattia di Alzheimer può essere di tipo familiare o di tipo sporadico. Nel caso di familiarità, l’esordio è precoce (generalmente prima dei 65 anni di età) e lo sviluppo di AD è correlato con la presenza di mutazioni in geni coinvolti nella regolazione della processazione della proteina β-amiloide. La componente genetica, tuttavia, si riscontra solamente in circa il 5% dei soggetti con AD; nell’ampia maggioranza (ovvero, circa il 95%) dei casi, l’insorgenza della malattia è riconducibile a una combinazione di fattori ambientali. Le principali variabili estrinseche che concorrono ad aumentare significativamente il rischio di insorgenza di AD sono l’alimentazione, la mancanza di un regime adeguato di attività fisica e l’esistenza di disfunzioni metaboliche pregresse. È tuttavia difficile separare i tre aspetti e considerarne le conseguenze indipendentemente gli uni dagli altri, in quanto presentano sia cause che manifestazioni cliniche in comune che si influenzano a vicenda.

Lo stato infiammatorio cronico, l’iperglicemia (la concentrazione elevata nel sangue di glucosio a digiuno), l’iperinsulinemia (livelli elevati di insulina nel sangue) e l’ipertensione sono condizioni patologiche caratteristiche e indicative di alterazioni nel mantenimento dell’omeostasi metabolica, quali l’insulinoresistenza, l’obesità, il diabete mellito di tipo 2, ecc. Tali patologie, a loro volta, costituiscono dei fattori predisponenti per altre malattie tra cui le complicanze cardiovascolari e, per l’appunto, l’Alzheimer. In altre parole, l’insulinoresistenza (ovvero, l’incapacità delle cellule di rispondere in maniera fisiologica all’azione dell’ormone insulina) è una condizione per cui nei tessuti che ne sono colpiti il metabolismo energetico del glucosio risulta difettoso e, di conseguenza, si instaurano una serie di processi aberranti collegati tra loro che finiscono con l’amplificare gli effetti patologici di partenza. Uno di questi processi è l’infiammazione persistente che, oltre ad alimentare l’insensibilità all’insulina, determina la produzione anomala di particolari proteine che mediano il segnale infiammatorio, chiamate “citochine”, e l’accumulo di grandi quantità di radicali liberi (o specie reattive dell’ossigeno, ROS). Nel cervello, l’afflusso massiccio di citochine pro-infiammatorie insieme allo stress ossidativo causato dai ROS, danneggia i neuroni che, quindi, perdono la capacità di rimuovere efficientemente le proteine β-amiloidi difettose, di regolare la formazione di connessioni neuronali (i.e. sinapsi), di assemblare correttamente i filamenti di microtubuli.

Uno stile di vita sedentario e un’alimentazione persistentemente sbilanciata (particolarmente ricca di cibi grassi e carboidrati raffinati) compromettono il corretto funzionamento del metabolismo e favoriscono, dunque, l’insorgenza sia di obesità che di insulinoresistenza. Dato il nesso tra insulinoresistenza e AD, non è sorprendente che un ammontare sempre crescente di dati metta in evidenza gli effetti benefici dell’esercizio fisico e della dieta per aiutare a prevenire e contrastare i sintomi neurodegenerativi della malattia di Alzheimer. Sia in persone affette da AD che in soggetti in cui la diagnosi di AD non sussiste ma che presentano, tuttavia, segni di “fragilità” fisica e cognitiva, lo svolgimento di un programma ad hoc di attività motoria e/o dieta determinano un miglioramento significativo dei parametri neuropsichiatrici.

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